"La mia non è stata una vita allegra" ripeteva spesso lo scrittore riferendosi soprattutto alla prima parte della sua vita, quella legata alla famiglia in cui era nato.
La figura di un padre famoso che frequentava i salotti letterari dell'epoca, amico dei più importanti scrittori e giornalisti di quel periodo come
Pirandello, D'Ambra, Martini, Rastignac, Malagodi ed una serie di lutti
familiari segnarono profondamente la giovinezza di Achille Campanile.
ll padre
Si chiamava Gaetano Campanile Mancini, la madre Clotilde Fiore. In famiglia, oltre al futuro scrittore, c'erano altri quattro figli: il fratello
Vincenzo col nome di Vincenzo Rovi, scriveva riviste e pezzi comici nel gruppo del
Marc'Aurelio con
Metz,
Mosca e
Fellini, un altro fratello,
Isidoro, portato per la scienza e due sorelle,
Elena ed
Anna,
alle quali Achille era molto legato. Il padre era nato a Napoli nel 1868 ma era originario di Caserta, dove i Campanile, tra l'altro, possedevano una casa di campagna proprio nei pressi della Reggia . Era "scenarista", cioè sceneggiatore e regista cinematografico all'epoca del muto. Tra le sue più fortunate sceneggiature la seconda riduzione cinematografica di Assunta Spina (1928) di
Salvatore Di Giacomo e successivamente nella fase di passaggio dal muto al sonoro, quelle di Ecco la felicità (1940) e di Miseria e nobiltà (1941).
"Mio padre " raccontava lo scrittore "era giornalista e
mi implorava: "Tutto, mi raccomando, meno che scrivere" Quindi dicevano in famiglia, cerchiamo una professione redditizia, una cosa pratica: ecco ingegneria. E siccome pareva che l'avvenire fosse sul mare, eravamo nella patria di
D'annunzio, c'era l'idea della Quarta Sponda, allora: ingegnere
navale. Io sentivo fare questi discorsi, non dicevo niente ma dentro ero
triste all'idea che avrei dovuto fare delle navi. Pensavo che sarebbero
andate a fondo subito, non sarei mai riuscito a fare una nave che stesse a
galla. Poi, fortunatamente, questa idea fu abbandonata. E si penso di farmi
fare il diplomatico: pareva una bella professione, si viaggia, si sta sempre
nelle feste. Ma pure questo cadde."
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Aspirazioni deluse
Andate male le due prospettive, i genitori pensarono alla carriera ecclesiastica.
"Mia madre mi voleva prete perché era amante delle gerarchie" raccontava
Campanile "mentre mio padre, che aveva sensibilità estetica, mi voleva
frate e in saio. Ma io mi impuntai. Loro pensavano che, timido com'ero, mi
servisse una situazione in cui fossi protetto. Finì tutto dopo una visita a
Montecassino,
dopo una giornata tra incunaboli e sai benedettini. L'idea di
introdurmi nel mondo della musica si esaurì davanti alle mie risse col
violoncello, strumento che mi era stato designato. Così, dopo aver preso la
licenza liceale, mi iscrissi alla facoltà di legge e trovai impiego in
qualità di avventizio presso il Ministero della Marina. Eravamo sul finire
della guerra. Dopo un mese abbandonai: come estensore di lettere mi ero
rivelato un disastro. Tutti quei termini "a pregiata vostra",
"in evasione di", "facendo riscontro" non li capivo ma,
in compenso, li usavo a casaccio. Per di più volevo anche dare uno stile
personale alle lettere che scrivevo per conto del capodivisione. Per cui
incominciavo con "Caro Oreste, tu mi conosci..." una
corrispondenza destinata a impartire ordini a un comandante di porto. Il
capodivisione mi disse: "Benedetto lei, manca non solo di buon senso,
ma non sa neppure l'italiano". Fu così che il padre si rassegnò al
fatto che anche il figlio seguisse la carriera giornalistica, dove,
peraltro, era passato anche lui, dopo aver diretto anche alcuni film, come
redattore capo della
Tribuna.
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Un riso amaro
Campanile fu segnato da due tragedie che a
distanza di poco tempo l'una dall'altra colpirono la famiglia. Isidoro a 22
anni, ufficiale di artiglieria e studente in chimica, durante una licenza
cadde da una scala mentre riparava una lampada, si fratturò la base
cranica, morendo quasi subito. La madre morì lo stesso anno " Penso
proprio che si sia lasciata morire dal dolore" ricordava lo scrittore.
Campanile, ricordando la morte del fratello, era solito raccontare un
episodio per testimoniare come nel nostro animo spesso convivano il ridere e
la tristezza. "Non è vero che quando si scrive una cosa da
ridere" diceva lo scrittore "si debba essere nello stato d'animo
dell'allegria; io ho scritto pagine allegrissime piangendo. Bisogna
dividersi in due, come staccare la spina della luce. Quando scrivevo
"Ma che cosa è quest'amore?, il mio primo romanzo che ha avuto
successo, morì mio fratello. Si stava laureando, era bravissimo, appena
uscito come sottotenente dalla scuola allievi ufficiali d'artiglieria. Quel
giorno era l'ultimo che doveva passare a casa, partiva per Verona per
raggiungere il reggimento. Io lavoravo la notte e dormivo di giorno, così
ero appena andato a letto: mi svegliarono, era già moribondo, potei appena
accarezzarlo nell'agonia. Ma siccome il romanzo lo pubblicavano in
appendice, a puntate, quella sera stessa dovetti mettermi a scrivere le
cartelle. E così i giorni successivi. Due mesi dopo, il romanzo non era
ancora finito, morì anche mia madre, proprio di dolore per questa
catastrofe. E io continuavo a scrivere, per far ridere." Alla memoria
della madre e del fratello Campanile dedicò "Se la luna mi porta
fortuna". Il padre morirà
a Roma nel 1942 nello stesso anno in cui veniva pubblicato
Il Diario di Gino
Cornabò.
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Il nipotino
Ancora legato al periodo romano del giovane Campanile è un evento tristissimo che pesò, forse, per sempre sia sull'uomo sia sullo scrittore.
" Avevamo noi fratelli e sorelle, da poco comperato una casa grande, lussuosa ai Parioli, con coinquilini aristocratici e portiere in livrea. Una delle mie sorelle aveva sposato il medico condotto di un paese della Sabina e aveva un bambino. Il bambino si ammalò e lei venne a Roma per curarlo. I paesani della Sabina continuavano ad andare avanti e indietro a trovare mia sorella. Venivano con le scarpe infangate, cappellacci in testa, fagotti col formaggio e un paio di polli vivi penzoloni in mano. Il portiere in livrea e gli aristocratici dei piani di sotto li guardavano scandalizzati e io mi vergognavo, pensavo che pensassero: "Ma che gente questi Campanile che hanno amici e parenti tanto giù?" Mi vergognavo a tal punto che me ne andai di casa. Poi successe che il bambino di mia sorella morì. Allora io soffrii di un pentimento terribile, il rimorso mi sconvolse e coinvolse tutti i temi eterni dell'uomo: la vita, la morte, l'aldilà, l'amore, lo scopo, tutto. Ne sono uscito fuori aggrappandomi al sentimento non alla ragione".
L'episodio verrà ripreso da Campanile in Benigno.