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...Quando arrivavo da Roma, in automobile, per "trattare" vicende o affari editoriali, lui, per solito, stava ancora a letto a sonnecchiare, oppure si era alzato giusto in quel momento.
Tant'é che con simulato affanno si precipitava a indossare un paio di pantaloni sotto alla giacca del pigiama, per potermi ricevere convenientemente,
e subito iniziare il nostro lavoro.
Il nostro lavoro, essenzialmente consisteva nel girare tutti e tre, io, Campanile con la giacca del pigiama, e sua moglie Pinuccia, attorno al tavolo e
di fronte agli scaffali, in cerca di qualcosa che sempre era andata smarrita, o si era ficcata da
chissà quale parte. Per esempio un fondamentale contratto dal quale avremmo saputo se un libro lo potevamo ristampare oppure no; per esempio
tutto il teatro misteriosamente inghiottito in qualche polveroso vortice, per esempio i numeri vecchi della Tribuna nei quali aveva fatto incursione qualche studente.
Reagendo con sommessa contrizione agli amorevoli ma abbastanza precisi rimproveri di sua moglie, Campanile fingeva di disperarsi.
Ovviamente fingeva anche di cercare. Per questo si muoveva un po' saltellando, mimava col busto qualche amletica indecisione, di qua o di
là, sollevava fogli ingialliti, apriva con ostinata inclemenza vecchie buste arancione che palesemente non contenevano nulla, si immergeva in letture a mezza
voce di lettere che non c'entravano nulla, poi esausto sfiancato, inerme di fronte al destino, si lasciava cadere nella sua comodissima poltrona sistemata di fronte alla tv.
Intanto, era arrivato il momento del pranzo. Le varie nipoti e il figlio Gaetano tornavano da scuola, le ragazze apparecchiavano la tavola,
Pinuccia si ritirava in cucina con grandi gesti eloquenti, tipo "di cerimonia" , come si vedono in certi filmati cinesi di visite ufficiali piuttosto che parlando,
Campanile si intratteneva con me.
Poi c'era il pranzo: lui a capotavola, io nel posto d'onore al suo fianco. Il pranzo, di solito, consisteva in un antipasto di prosciutto di montagna, un gran fritto di pesce,
soprattutto gamberi e calamari per i quali Campanile andava matto
,
una insalatina un po' di frutta e il
caffè corretto con il Mistrà. Campanile mangiava in silenzio, piano piano, sbucciando gamberi uno per uno. La conversazione la teneva sua moglie. Si parlava, quasi sempre di
amori, fidanzamenti, amici e amiche di figli e nipoti, oppure di altre cene o pranzi che c'erano stati con, per me, sconosciuti signori velletrani. Di tanto in tanto,
Pinuccia citava qualche personaggio famoso della letteratura amico di
Campanile, come Repaci, Patti o Carlo Bo, ricordava l'ultimo pranzo al quale il suddetto personaggio era stato invitato, e magari qualche scherzo che a suo danno il
terribile Gaetano aveva architettato. Senza alzare la testa dal piatto, allora, tra baffi e barbone bianco, Campanile un po' se
la rideva. Anche della sua ex moglie si parlava ogni tanto. Costei era definita una donna terribile, una vera e propria virago, avida e dispettosa, che aveva rovinato
la vita del povero Achille.
Achille annuiva. Ogni tanto, in rari momenti di pausa, a bassa voce, come se proprio non potesse tacere, raccontava anche lui qualche cosa.
Per esempio di questa moglie. L'efferato episodio, per esempio, di quando, gelosissima, per coglierlo
in castagna, gli scrisse un biglietto anonimo fingendosi sua ammiratrice. La attenderò nella mia carrozza - ripeteva Campanile a
bassissima voce staccando solennemente le parole - sul far del tramonto in cima alla scalinata di Trinità dei Monti. Pioveva ma la carrozza era
lì, sul far del tramonto. E beninteso pure Campanile, che di gonnella mai ne perse una. Sennonché, la carrozza era chiusa, e quando lui,
incauto, vi ficcò dentro la testa... ebbene, era lei, la perfida donna e ognuno può immaginare la tremenda ombrellata sulla testa che essa seppe sferrargli...
Dopo pranzo me ne dovevo tornare a Roma. Campanile si alzava, ogni volta, e gentilissimo mi accompagnava fino alla porta. Anzi, fino alla
macchina, facendomi generiche raccomandazioni di andar piano e di tornare presto
,
lì, davanti, nel piazzale del giardino. Questo giardino, a parte un grande albero con i fiori tutti bianchi come neve
sotto il quale Campanile, con grande civetteria, per via della barba bianca, si faceva fotografare, questo giardino, dicevo, era praticamente
vuoto e nulla lì intorno aveva alcunché, di agreste. Non c'erano, orti, pollai, serre, vivai, piantagioni di nessun tipo, nulla. Cosicché, anche
considerando il fatto che lui stava sempre dentro casa, il motivo per cui avessero scelto di vivere in campagna rimaneva un mistero..."
A proposito di virgole. Questa sceneggiata di non trovare mai nulla ogni tanto avevo il dovere di troncarla.
Allora imploravo, supplicavo, minacciavo anche, che per la prossima volta mi facessero trovare del lavoro. E il lavoro,
puntualmente, veniva fatto. E la precisione degli interventi sul linguaggio (si trattava, perlopiù di vecchie cose da rivedere e mettere
a posto) mi lasciava assolutamente esterrefatto. Non perché, non sapessi che Campanile fosse l'autore di una delle migliori prose italiane del
nostro Novecento, ma perché, dal suo atteggiamento avevo capito che adesso non aveva voglia di fare più nulla. E invece, evidentemente, di
fronte alla pagina scritta, si risvegliava in lui una splendida operosità da artigiano. E questa funzionava da sè.
Così, fino alla sua morte. In non molti anni di conoscenza e di amicizia sufficienti, comunque, a stabilire un profondo, reciproco affetto,
tirammo fuori parecchi lavori.
Se non ci fosse stato qualcuno, comunque, un editore, che lo avesse stimolato, sono del parere, per quello che ho visto e capito, che Campanile non avrebbe fatto nulla.
Avrebbe lasciato molte cose inedite, molte non pubblicate, molte non finite. E non se ne sarebbe curato minimamente..."
* Giorgio
Montefoschi (Roma, 1946) è uno scrittore e critico
letterario italiano.
Laureato in lettere, pubblica il suo primo romanzo
"Ginevra" nel 1974. La sua carriera letteraria è
costellata di premi letterari, tra cui il Premio Strega
nel 1994 con il romanzo "La casa del padre" e il Premio
Mondello nel 2003 con "La sposa".
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