È stato detto che interessarsi a Campanile porta inevitabilmente a diventare uno
dei suoi personaggi Dopo aver assimilato le migliaia di pagine che
costituiscono i romanzi, i racconti, gli articoli, non si può pensare
più come prima; la visione del mondo si modifica perché si alterano i
meccanismi della logica che sottostanno a tale visione. Tutte le regole
del senso comune sono stravolte: la prevedibilità e la ragionevolezza
cedono il posto all'anarchia dei fatti e delle parole. Eppure
Campanile crea le assurde vicende delle sue storie basandosi quasi
sempre sulle proprie esperienze: i personaggi rappresentano le mille
facce di uno scrittore che coglie in ogni occasione il lato grottesco
delle cose. Achille Campanile negli anni ha cambiato lavoro, moglie,
casa e città. Si è nascosto sotto nomi diversi su giornali
diversi (spesso con gli pseudonimi di "Trappola", "Giovin
Astro", "Gino Cornabò", "Don Gomez o la fatalità"). Ha usato
tutti i registri stilistici passando dalla comicità sfrenata alla
tristezza struggente. Ha subìto persino una trasformazione fisica
tanto da sembrare due persone distinte: il galante giovanotto degli anni
Trenta, con il monocolo e la
brillantina sui capelli, ha ceduto il posto negli anni Settanta al
burbero signore dalla gran barba bianca. Il monocolo e la barba
"tolstoiana" sono le maschere (una per osservare meglio e l'altra
per passare inosservato) adottate da un uomo irrequieto e mutevole che
deforma la vita con gli occhi dell'ironia. Solo il suo metodo di
scrittura è rimasto invariato nel tempo:
Ho
visto migliaia di albe nella mia vita...Per anni, per
decenni, ho scambiato il giorno con la notte. Lavoravo dalle dieci di
sera alle dieci del mattino, poi andavo a letto e mi alzavo nel tardo
pomeriggio ... Scrivo a mano, e quasi sempre su pezzi di carta
avanzati o scampati all'altrui scrittura...Alla macchina da scrivere
non m'è mai riuscito d'inventare, di comporre. La vedo nel bagaglio
d'uno scrittore soltanto come utile strumento di trascrizione. Il suo
ticchettio metallico mi distrae, la sua presenza fredda, meccanica,
rappresenta un diaframma sempre difficilmente superabile tra me e il
foglio di carta. Insomma mi è antipatica.
Nei
romanzi questa origine disordinata e frammentaria è evidente
nella mancanza di una trama e nell'interscambiabilità delle parti:
addirittura un intero capitolo può essere spostato da un punto
all'altro del libro senza che questa operazione modifichi il risultato
finale. La scrittura sembra estemporanea, composta di getto e
senza ripensamenti o correzioni successive, guidata da quelli che lui
definisce "lampi d'imbecillità". "Le mie cose le riscrivo
parecchie volte" obietta invece Campanile "solo che le
rifaccio sempre tali e quali. Se perdo qualche foglio lo riscrivo, ma
quando poi lo ritrovo mi accorgo che non ho cambiato una sola
virgola...".
Un
esempio della disinvoltura con cui Campanile maneggia le sue creazioni
è dato dall'incipit di Ma che cos'è quest'amore? che è una
trascrizione fedele di un brano alla fine dello stesso romanzo.
L'inizio del pezzo poi è stato ritoccato più volte in edizioni
successive per dargli un taglio via via più teatrale (tanto che nel
'25 ritorna identico nella "tragedia in due battute" Alla stazione
in un mattino ). I romanzi risentono anche della loro natura episodica.
Nascono tutti a puntate, pubblicati sui quotidiani e il fatto che
Campanile avesse la consuetudine di lavorare contemporaneamente a più
cose complica ulteriormente il compito di chi vorrebbe rintracciarne la
genesi. La narrativa di Campanile è un immenso work in progress che non
consente una classificazione cronologica o contenutistica.
Il
criterio di divisione qui adottato, i romanzi degli anni Venti e i
romanzi e i racconti fino agli anni Settanta, rispecchia un'esigenza
metodologica e formale. A partire da Ma che cos'è questo amore?
(1924) fino a Amiamoci in fretta (1933), nell'opera di Campanile
predomina lo stesso tipo di comicità "stralunata", sganciata da
qualsiasi allusione al particolare momento storico. Il riso nasce
nel e dal linguaggio, in prevalenza astratto, cioè privo di riferimenti
a concrete coordinate spazio temporali, non dalla satira di costume né
dalla parodia di carattere. Da Chiarastella (1934) in avanti, il
percorso narrativo cambia e il tono ironico-moralistico comincia ad
assumere un ruolo maggiore. L'umorismo, Giano bifronte che associa la
farsa e la tragedia, fa da guida ad un modo nuovo di esaminare la vita e
si sostituisce alla comicità apparentemente "leggera" dei romanzi
precedenti. Gli scritti successivi sono sempre più legati a Campanile
come critico degli altri e di se stesso. La sua riflessione sulle
debolezze umane si accompagna inesorabilmente alle considerazioni sulla
morte, la paura più grande e l'ultimo efficace specchio
dell'insensatezza dell'esistenza. Campanile, dissacrando le
istituzioni su cui si regge una società (il matrimonio, la patria,
il rito funebre: ovvero l'amore, l'onore, la morte) si rivela fine
conoscitore della natura dell'uomo, offrendoci il divertente ed
insieme drammatico spettacolo delle nostre miserie e dei nostri
paradossi. Un discorso a parte merita Benigno. In questo romanzo, il
primo ad essere ideato e l'ultimo ad essere pubblicato, c'è il
nucleo dell'umorismo di Campanile, divertente ed insieme malinconico:
il filone comico-paradossale e quello satirico-crepuscolare si
bilanciano in un fragile equilibrio. Bisogna dire però che l'ambiguità
attraversa tutto il lavoro di Campanile, rendendo inopportuno fare
distinzioni nette e definitive. La malinconia e la gioia sono gli stati
d'animo che accompagnano sempre i suoi scritti, anche se
si manifestano in modi e tempi differenti.
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